I miei libri

Alla fine del 1986 il Dna forense ha fatto il suo ingresso nei tribunali – prima in Gran Bretagna e immediatamente dopo negli Stati Uniti – meritandosi presto l’appellativo di «prova regina». Nel giro di un decennio l’introduzione di tecnologie sempre più sofisticate consente di trovare la «firma» dell’omicida anche a partire da poche cellule invisibili ad occhio nudo. Questo libro vuole raccontare il Dna forense «sul campo» partendo da una serie di casi celebri di cronaca nera che hanno avuto una enorme copertura di stampa.

Il libro si apre con la celebre indagine sul doppio omicidio di Narborough, in Inghilterra nella seconda metà degli anni ’80, quando i corpi di due ragazzine di 15 anni vengono trovati senza vita in alcuni sentieri di campagna a distanza di tre anni l’una dall’altra. Sono state strangolate e violentate e quindi con il secondo omicidio si ha quasi la certezza di avere a che fare con un killer seriale. Nell’86 Alec Jeffreys, un genetista che lavora all’Università di Leicester scopre che negli introni dell’emoglobina – gli introni sono delle sequenze del gene non codificanti – si presenta un numero variabile di ripetizioni casuali di brevi sequenze. Queste ripetizioni si trovano in una regione ipervariabile del gene, quindi comportano grandi differenze tra un individuo e un altro. La tecnica di Jeffreys, pubblicata in un citatissimo articolo su Nature, consentirà di effettuare un gigantesco screening di massa tra tutti i giovani della contea fra i 17 e i 34 anni. E porterà alla cattura dell’assassino che ha lasciato sul corpo delle vittime tracce di sperma, ma anche all’assoluzione di un giovane – con evidenti problemi psichiatrici – che si era autoaccusato di uno dei due omicidi. E’ storicamente il primo caso al mondo risolto con le impronte genetiche.

Il secondo capitolo è dedicato all’omicidio di Balsorano, una piccola frazione in provincia dell’Aquila, dove nel 1990 una bambina di sette anni – Cristina Capoccitti – viene trovata senza vita in un fosso. Le indagini portano a scoprire nella canottiera di uno zio della vittima, Michele Perruzza, otto capelli provvisti di bulbo e una serie di tracce ematiche su delle mutande nascoste nel sottotetto della casa. A chi appartengono? Le analisi genetiche dimostrano che i capelli sono della giovane vittima, così come le tracce ematiche, ma sulle mutande c’è una guerra di perizie perché potrebbero appartenere a Michele Perruzza, o al figlio Mauro, che all’epoca dell’omicidio ha 13 anni e quindi non è imputabile. Seguiranno cinque processi in cui l’imputato si vale della facoltà di non rispondere, forse per difendere il figlio, e viene condannato all’ergastolo. Nuove analisi genetiche in un processo «a latere» esaminano delle tracce di urina sulle mutande e sembrerebbero aprire la strada per una revisione del processo nei confronti di Michele, perché le tracce appartengono al figlio Mauro. Michele muore nel 2003 di infarto nel carcere di Rebibbia e la revisione del processo non verrà mai celebrata. E’ storicamente il primo caso italiano in cui un imputato viene condannato con il Dna.

Il terzo capitolo è dedicato al delitto di Perugia e all’omicidio di Meredith Kercher: in primo grado vengono condannati a 26 e 25 anni di carcere Amanda Knox e Raffaele Sollecito. In un secondo processo a latere, stavolta con rito abbreviato, viene condannato per concorso in omicidio Rudi Guede, un ivoriano di cui si trovano molte tracce sul luogo del delitto. Una serie di perizie genetiche sul fermaglio del reggiseno della vittima e su un coltello trovato a casa di Sollecito portano a due condanne di Amanda e Raffaele e a un’assoluzione. L’ultima sentenza della Suprema Corte non prevede il rinvio, il quadro indiziario è quello del primo processo, per cui chiude l’iter giudiziario. Anche stavolta la prova regina sarà quella del Dna che darà luogo a una serie di perizie genetiche (sono tre) che per la Cassazione presentano insanabili contraddittorietà. Il caso si chiude definitivamente nel 2015 ed avrà risonanza internazionale.

Il quarto capitolo riepiloga le procedure di laboratorio utilizzate nel Dna forense. Ne spiega il percorso e le metodiche che vengono applicate per arrivare a «tipizzare» un campione di Dna con gli STR (o Short Tandem Repeat), attualmente la tecnica più utilizzata per il profiling genetico. L’intera procedura richiede il ricorso ad apparecchiature fortemente automatizzate e i risultati si possono ottenere nel giro di qualche ora.

Il quinto capitolo riguarda il caso di Yara Gambirasio il cui processo è arrivato a sentenza nel 2016 con la condanna in primo grado di Massimo Bossetti. Il delitto di Brembate è di straordinario interesse perché viene condotto un gigantesco screening di massa – almeno 31.000 prelievi – per trovare l’identità del cosiddetto «Ignoto 1» di cui vengono trovate tracce di Dna sul corpo della vittima. Una gigantesca caccia all’uomo porterà a stabilire non solo che il Dna è di Massimo Bossetti, ma anche che è un figlio illegittimo di tale Giuseppe Guerinoni, un autista di autobus morto nel 1999, cosa di cui l’imputato è all’oscuro. La tecnica impiegata viene definita «rete a strascico» (o dragnet) e comporta l’analisi di relazioni di parentela all’interno di una famiglia allargata. Il caso farà storia, anche perché la raccolta di campioni è talmente profonda ed estesa da non avere eguali in nessun altra indagine europea.

Il sesto capitolo è dedicato al «familial searching», alle banche dati e ai problemi di carattere giuridico sollevati dalla possibilità di interfacciare vari tipi di database. Un caso emblematico è 23andMe e alcuni portali di genomica a cui si ricorre per avere un quadro delle proprie ascendenze familiari. Alcuni indagini, come nel caso di Michael Usry in Louisiana, hanno sollevato un intenso dibattito giuridico negli Stati Uniti sulla ricerca familiare. Un sospettato può dare il proprio consenso al prelievo di campioni biologici, ma l’analisi comporta uno screening della sua intera famiglia allargata (che in genere è all’oscuro di simili indagini). Secondo alcuni giuristi questo tipo di ricerca è in aperto conflitto con il Quarto Emendamento della costituzione americana che tutela la privacy.

Il settimo capitolo è dedicato a un cold case, quello di Serena Mollicone, una giovane ragazza trovata uccisa nel giugno del 2001 ad Arce in provincia di Frosinone. Le indagini si sono trascinate per 15 anni senza trovare un colpevole, anche se tuttora ci sono tre indiziati di reato. Nel gennaio del 2016 gli avvocati della famiglia Mollicone sono riusciti a fermare l’archiviazione dell’inchiesta. I genitori di Serena, che si valgono della consulenza del generale Garofalo, ex direttore dei RIS, hanno chiesto al magistrato di sottoporre tutta la popolazione maschile di Arce a un prelievo. Al momento il caso risulta ancora insoluto.

Il libro ha una prefazione del genetista Giuseppe Novelli, rettore di Tor Vergata e uno dei pionieri dell’introduzione del Dna forense nel nostro paese.

Il libreria dal 3 marzo 2017

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Una recensione sul manifesto di Vincenzo Scalia

VINCENZO SCALIA
Il manifesto

L’introduzione del DNA come strumento probatorio per approdare a una risoluzione giudiziaria dei delitti più efferati, rappresenta un’acquisizione relativamente recente, risalente alla metà degli anni ottanta. Il suo utilizzo continua a destare non poche perplessità, sia presso l’opinione pubblica, sia tra gli addetti ai lavori. Da un lato, l’utilizzo dell’acido deossiribonucleico come “prova regina” dei casi giudiziari più controversi, ha rovesciato l’impianto investigativo, laddove la ricostruzione logica lascia spazio alla rilevanza empirica. Per questo motivo il DNA si è guadagnato presso l’opinione pubblica l’appellativo di “prova regina”, una reputazione veicolata da serie televisive come CSI. Dall’altro lato, l’utilizzo di tecniche così specifiche, ancorché invasive della privacy individuale, non ha evitato di destare alcune significative perplessità, che investono in particolar modo la sfera legale-giudiziaria. In che quantità il DNA raccolto costituisce materiale sufficiente? Quali sono le tecniche legalmente valide? In altre parole, quanto è labile il confine tra scienza e presunzione di innocenza? Quest’ultima domanda risulta particolarmente insidiosa, alla luce del fatto che, al di là dei meri elementi probatori, casi come quelli di OJ Simpson o del delitto di Garlasco finiscono per produrre una contrapposizione acuta fra innocentisti e colpevolisti. Se è vero quanto sosteneva Durkheim quando affermava che la pena è buona in quanto protegge la società e non il contrario, allora, come sostiene Alan Dershowitz, noto penalista americano, i processi non si vincono in tribunale, bensì nell’arena pubblica. Il DNA, di conseguenza, finisce per essere una prova oggettiva, per inserirsi all’interno delle dinamiche sociali che presiedono alla costruzione del colpevole o dell’innocente di turno.
Gianfranco Bangone, nel suo ultimo lavoro La Prova Regina. DNA Forense e Celebri Delitti Italiani (Codice Edizioni, Torino, 2017; pp.200), ha il merito di ricostruire queste contraddizioni, addentrando il lettore in un campo pieno di insidie, ma anche stimolante e meritevole di approfondimenti. In questo contesto, il libro di Bangone risulta un utile strumento sotto tre aspetti. Innanzitutto, l’autore, con uno stile illustrativo e analitico efficace, introduce i non addetti ai lavori, in particolare quelli sprovvisti di cultura scientifica, all’interno della genetica e della sua relazione con la giustizia. Sin dal suo avvento, il DNA ha rappresentato un’inversione paradigmatica anche nel campo della criminologia: confutando una volta per tutte la presunzione lombrosiana di categorizzare l’uomo delinquente per gruppi etnici, classi sociali e patologie (vere o posticce), attraverso la genetica si insiste sulla specificità del singolo. Ogni sospettato o colpevole possiede il suo DNA, che lo rende identificabile rispetto agli altri. Se dal punto di vista scientifico questa acquisizione costituisce un notevole passo in avanti, non lo è sotto il profilo giudiziario. Esistono infatti due metodologie di acquisizione della “prova regina”: la prima è quella del cosiddetto low copy number, ovvero tracce di DNA esigue ma utilizzabili in un’indagine attraverso l’utilizzo di calcoli probabilistici. E’ stato proprio l’utilizzo di questa tecnica a far decidere la Cassazione sull’incertezza delle prove in merito al delitto di Meredith Kercher, avvenuto a Perugia nel 2007, e a mandare assolti Amanda Knox e Raffaele Sollecito. La seconda tecnica, utilizzata per risolvere il caso relativo all’omicidio di Yara Gambirasio, è quella del dragnet (letteralmente reti a strascico), che consiste nell’applicazione estensiva dell’analisi genetica nella ricerca del presunto colpevole di un caso. In questo caso, la popolazione rappresentativa all’interno di un certo campione viene invitata a sottoporsi al prelievo di DNA al fine di recuperare le prove necessarie a risolvere il caso.
In secondo luogo, lo stile che adotta Bangone, rende il libro fruibile. Ci troviamo di fronte ad un registro discorsivo composito, dove la divulgazione scientifica si combina con la cronaca giornalistica e con la narrativa, invogliando il lettore a riflettere sia sui singoli casi presentati, sia sull’utilizzo e l’utilità del DNA. Il filo che collega tutto il libro riguarda lo scarto esistente tra scienza e diritto, tra il bisogno dell’opinione pubblica di trovare un colpevole e la tutela delle garanzie dell’imputato. All’interno di questa dialettica, l’uso dei campioni genetici trovati sulla scena del delitto finisce per essere la prova regina, per retrocedere al rango di catalizzatore della diversità di punti di vista tra le controparti. Per quanto l’accusa possa essere convinta di presentare delle prove inoppugnabili, la difesa potrà sempre opporre l’inadeguatezza della tecnica adottata o la tipologia di DNA prelevata. Inoltre, le giurie coinvolte nei diversi gradi di giudizio, disporranno del loro punto di vista in merito, confermando o ribaltando le sentenze. Infine, come nel caso dei delitti di Narborough, primo caso nella storia risolto attraverso l’utilizzo del DNA, senza una soffiata da parte di testimoni inaspettati, fornita in modo casuale, non sempre si riesce a seguire la strada giusta rispetto alla risoluzione del caso. Queste dinamiche, ovviamente, si verificano sotto lo sguardo attento, e talvolta voyeuristico, di un’opinione pubblica desiderosa di rispecchiare e convogliare le proprie rappresentazioni, proiezioni e insicurezze all’interno del singolo caso. La scienza, sin dai suoi albori, ha sempre finito, a lungo andare, per aumentare i problemi che credeva di avere risolto. E’ cosi anche nel caso del DNA. A pensarci bene, dal momento che c’è in gioco la presunzione di innocenza, è meglio che lo sia…

 

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La fondazione dello Stato Islamico in Iraq e in Siria ha colto l’opinione pubblica occidentale di sorpresa. Per quanto l’offensiva dell’ISIS sembri assomigliare a un blitz, le ragioni di questo successo non dipendono esclusivamente dalla geometrica potenza sfoggiata dalle sue milizie, ma dal vuoto generato dal collasso del regime in Siria e dal ritiro delle forze americane in Iraq, dove la maggioranza sciita ha iniziato a reprimere, spesso con la forza, la minoranza sunnita una volta al potere con Saddam Hussein. Sono la guerra civile in Siria e le condizioni pre-insurrezionali in Iraq a creare l’ambiente ideale per l’espansione delle colonne con le bandiere nere. Non si tratta di un copione interamente nuovo, perché come racconta questo libro gruppi jihadisti hanno tentato il colpo di mano in molti paesi del Medio Oriente: formazioni radicali legate in vario modo ad al-Qaeda hanno tentato di occupare i territori ad Amministrazione Tribale in Pakistan, il sud dello Yemen, la Somalia e molti altri paesi. La risposta degli Stati Uniti a questa nuova minaccia è una strategia di contro-insurrezione che è molto lontana dal classico intervento militare; davanti a un nemico che si muove spesso nell’ombra si utilizzano nuovi strumenti di intelligence che consentono di accumulare informazioni, creare matrici che rivelino la catena di comando, intercettarne le comunicazioni, localizzare i gruppi armati sul terreno, per ridurne la forza con bombardamenti mirati e la sistematica eliminazione fisica dei loro comandanti. L’intento è di decapitare la leadership e di portare al collasso quello che i militari chiamano il centro di gravità del nemico. È la guerra al tempo dei droni, quella che vedremo ancora per lungo tempo in Iraq e in Siria.

 

In libreria dal 15 ottobre 2014

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