Iran-Usa: una trattativa con molti retroscena

Rouhani-2-AFP Domani si apre a Ginevra un tavolo negoziale che durerà due giorni tra l’Iran e il cosiddetto gruppo 5+1 (composto dai cinque membri permanenti del consiglio di sicurezza più la Germania). Sull’esito di questa trattativa, innescata da una telefonata fra Barak Obama e Hassan Rouhani, ci sono valutazioni molto difformi, molta pretattica e forse speranze infondate. La trattativa sarà delicatissima e considerando il fatto che le posizioni sono molto distanti si potrà arrivare a un vero risultato solo se una delle due parti in causa rinuncerà a qualcosa di sostanziale. Nel 2012 la delegazione iraniana e quella dei 5+1 si è incontrata quattro volte in otto mesi senza mai raggiungere un accordo minimo che potesse consentire di continuare a discutere. Nel frattempo l’Iran ha eletto un nuovo presidente, ma è difficile che Rouhani abbia il potere di ribaltare la posizione che Teheran ha tenuto sinora sul nucleare. L’argomento è difficile e gli aspetti tecnici sono straordinariamente complessi, ma è proprio su questi ultimi che si giocherà la vera partita. Per cui è utile spiegare qual è la posta in gioco per Teheran e per le cancellerie occidentali.
Intanto bisogna precisare che importanti dichiarazioni di esponenti del governo iraniano sono state riportate dai media occidentali in modo assai diverso da quanto ha riferito in patria la stampa iraniana. Ad esempio Mohammad Javad Zarif, ministro degli esteri del governo Rouhani, ha dichiarato alla ABC che il nucleare è stato un forte impedimento per ristabilire delle relazioni con gli Stati Uniti (peraltro paese in cui ha studiato) e che era necessario superare forme di diffidenza. Ma a Teheran il suo vice ministro, Abbas Araghchi, esprimeva forti perplessità dichiarando apertamente che l’Iran non si sarebbe mai fidato degli Stati Uniti: «In definitiva – dice il viceministro all’agenzia governativa Fars – una lunga storia di tensioni tra Teheran e Washington non si supera con una telefonata, con un incontro o un tavolo di negoziato». Più o meno nelle stesse ore Susan Rice, advisor di Obama per la sicurezza nazionale, diceva alla CNN che gli Stati Uniti e i suoi alleati non avrebbero mai concesso una riduzione delle sanzioni senza avere prove concrete della rinuncia di Teheran a dotarsi di una deterrenza nucleare. L’Iran rivendica da molti anni il diritto a sviluppare il nucleare e questo comporta la necessità di avere stabilimenti dove arricchire l’uranio (quasi tutti i reattori per la produzione di energia elettrica utilizzano combustibile di uranio 238 arricchito intorno al 3% di uranio 235). Nei tavoli di negoziato del 2012 si è tentato di aggirare questo ostacolo quando i 5+1 hanno proposto ai loro interlocutori di fornire all’Iran il combustibile necessario per la produzione di energia in un forma che ne impedisse l’ulteriore arricchimento, ma questa proposta non è mai stata accettata. Lo scoglio vero è questo: per costruire una testata nucleare miniaturizzabile bisogna disporre di uranio weapongrade, ovvero arricchito al 90% (per allestire un ordigno nucleare ne servono circa 28 Kg). Se il vero obiettivo del governo iraniano è questo allora non accetterà mai qualsiasi accordo gli impedisca di arrivare a questo risultato.
C’è poi un altro corno del problema: buona parte della filiera nucleare iraniana è concretamente nella mani delle Guardie Rivoluzionarie, quindi il settore è governato dagli hardliners della politica di quel paese che non hanno mai fatto mistero delle loro vere intenzioni fomentando una campagna dai toni molto forti contro Israele (che per inciso è una potenza nucleare) e contro gli Usa. Non è certo a caso che quando Rouhani è tornato in patria dopo aver tenuto un discorso «aperturista» all’Onu è stato accolto all’aeroporto da un gruppo di manifestanti che gli hanno tirato uova e anche qualche scarpa. Sono simpatizzanti delle Guardie Rivoluzionarie? Sembrerebbe proprio di sì, anche perché nella partita politica che si gioca a Teheran sembra che una delle richieste del nuovo presidente alla Guida Suprema, Ali Khamenei, sia stata quella di «ridurre» il potere delle Guardie che controllano una parte rilevante dell’economia di quel paese. Come se non bastasse i negoziati sono complicati anche dal fatto che gli emirati del Golfo Persico non vedono di buon occhio la trattativa con Teheran perché non vorrebbero mai avere un confinante armato di missili nucleari. E infine c’è Israele che ha minacciato il blitz se Teheran fosse arrivata al cosiddetto breakout, ovvero a superare quella soglia che ne avrebbe fatto una potenza nucleare. Dall’altra parte della barricata quali sono i veri interessi di Washington? Il risultato minimo sarebbe quello di allontanare il breakout di un certo numero di anni, la politica ha la vista corta e forse ad Obama basterebbe raggiungere una vittoria «simbolica» lasciando a quelli che gli succederanno la soluzione del problema, ammesso che esista. Ma invece quali potrebbero essere i veri obiettivi di Teheran? Le sanzioni stanno strozzando il paese e negli ultimi due anni le casse dello stato hanno dovuto rinunciare a buona parte degli introiti ricavati dalla vendita del greggio. In un paese abituato a stringere la cinghia in silenzio non è detto che questa sia una condizione drammatica, ma certo tocca in profondità nervi sensibili: buona parte della popolazione iraniana è sotto i 35 anni, l’inflazione viaggia sul 40%, il welfare sembra un ricordo del passato perché mancano i fondi, è difficile trovare lavoro, fare la spesa e mantenere una famiglia in modo decoroso. Cosa accadrebbe se le cose continuassero così per altri 5 o 6 anni? Hanno ragione quelli che sostengono che l’unica politica efficace per indebolire il regime teocratico di Teheran sono le sanzioni? La risposta al problema è stato il via libera da parte della Guida Suprema all’elezione di Hassan Rouhani, una vecchia volpe della politica iraniana che paradossalmente è anche una vecchia conoscenza dei negoziatori internazionali sul nucleare: Rouhani è stato il delegato di Teheran per la trattativa con l’occidente quando era presidente il moderato Khatami. In quel caso il governo iraniano aveva accettato un compromesso, ovvero un «fermo» sulle attività di arricchimento dell’uranio (durato solo un paio di anni) in cambio di sostanziali concessioni. Oggi sappiamo che in quell’occasione il regime voleva tirare un po’ il fiato e guadagnare tempo – arte in cui gli ajatollah son maestri − infatti durante il cosiddetto «fermo» ha iniziato a progettare sottobanco impianti ancora più sofisticati per l’arricchimento dell’uranio mentendo all’AIEA, comportamento facilitato anche dalla benevola disattenzione del direttore generale di turno (per la cronaca l’egiziano Mohammed el Baradei). Avremo una riproposizione di questo scenario? Le possibilità sono abbastanza elevate e a confermarlo ci sarebbe qualche analisi tecnica che riportiamo al minimo essenziale.
Teheran quanto è lontana dal cosiddetto breakout? L’Iran ha un certo numero di centrifughe di cui è nota l’efficienza: in termini molto semplici diciamo che il valore SWU (o separative work unit) indica la capacità di separazione di Uranio 235 di una macchina alimentata da Uranio 238 in forma gassosa (UF6). Secondo il rapporto dell’AIEA del 28 agosto nel centro di Natanz sono operative 9.396 centrifughe IR-1 che possono produrre 8.500 SWU l’anno, ma quelle installate sono 15.486 per una produzione che potrebbe toccare 14.000 SWU l’anno. A queste centrifughe di vecchia generazione si stanno aggiungendo le IR-2 – non ancora alimentate da uranio in forma gassosa − che hanno una maggiore efficienza (una singola centrifuga IR-1 ha un valore di di 0,9 SWU/anno, una IR-2 circa 4,7 SWU/anno). Sempre secondo l’IAEA l’Iran ha accumulato 5.576 Kg di uranio arricchito al 3,5%, per cui si può calcolare il tempo necessario a trasformare questo materiale debolmente arricchito in uranio weapongrade. Con più di 9.000 centrifughe in funzione si possono ottenere 28 Kg di uranio arricchito al 90% in un intervallo tra 2 e 7 mesi, tutto dipende da quanto uranio al 3,5% viene processato. Secondo l’IAEA l’Iran ha accumulato 372 Kg di uranio arricchito al 20%, ma molti specialisti non considerano questo combustibile nel calcolo del breakout per la semplice ragione che lo considerano «sacrificabile» in una eventuale trattativa. Infatti una delle condizioni inderogabili poste dagli Stati Uniti e dai 5+1 è quella di «trasferire» in un paese terzo (forse la Russia) l’uranio già arricchito al 20%.
Ovviamente non si può escludere che Teheran utilizzi altri impianti clandestini non denunciati nelle clausole di salvaguardia, anche se nel 2010 ha comunicato all’IAEA la sua intenzione di sviluppare altri dieci stabilimenti di arricchimento, di cui per ora non si conoscono i particolari. La velocità con cui l’Iran arricchisce uranio è un particolare tecnico rilevante perché indica ai decisori politici la quantità di mesi di preavviso necessari per portare la situazione sotto controllo (ovviamente è un eufemismo). Un warning ridotto a pochi mesi consente solo una soluzione militare, uno più lungo – diciamo un anno – consentirebbe di utilizzare strumenti ancora più coercitivi (ad esempio un ulteriore inasprimento delle sanzioni) e di trattare. Per molti specialisti l’Iran si è già preparata all’eventualità di un intervento militare e al bombardamento dei suoi centri di produzione (ammesso che l’opzione sia realmente praticabile). Se così fosse uscirebbe dal Trattato NTP e continuerebbe a produrre uranio arricchito in centri non ancora noti o fortificati (come Fordow). Insomma è un gioco del gatto con il topo e ognuno degli attori sulla scena ha molte carte coperte. Per le trattative del 2012, ad esempio, non abbiamo documenti ufficiali che dichiarino le richieste degli Stati Uniti e quelle dell’Iran, ma solo indiscrezioni. E’ circolato in maniera quasi clandestina un power point del capo negoziatore iraniano, durante un seminario che si è tenuto a Mosca, ma è difficile stabilire se è stata una fuga di notizie «pilotata» o meno. E’ assolutamente certo che le reali capacità produttive di Teheran siano note a Israele, Stati Uniti e forse anche ad altri paesi che seguono da molto vicino gli sviluppi della situazione. Se guardiamo alle esperienze del passato in fatto di nucleare – principalmente India e Pakistan – non è da escludere che l’Iran si fermi quando ha accumulato un quantitativo sufficiente di uranio «militarizzabile», rimandando a un secondo tempo un test nucleare per collaudare la complessa iterazione degli eventi che portano alla fissione nucleare. Siccome mentre si produce il combustibile si fa ricerca anche su questi aspetti il tempo necessario a montare un ordigno per un test si può ridurre a poche settimane (anche qui vedi il caso dell’India e del Pakistan). Ovviamente un test comporta risposte durissime dal punto di vista internazionale come dimostra il contenzioso con la Corea del Nord. I documenti IAEA sostengono che Teheran è molto avanti sulla «militarizzazione» del nucleare ed ha sempre impedito agli ispettori dell’Onu di effettuare ispezioni. Nel centro di Parkin, ad esempio, sono stati sicuramente effettuati «test a freddo», ovvero senza combustibile nucleare. L’Agenzia di Vienna chiede da tempo di visitare questo centro ma non ha mai avuto risposta: nel frattempo – come dimostrano le immagini da satellite – Parchin è stato non solo smantellato ma si è rimosso anche lo strato superficiale del terreno per impedire che un giorno o l’altro l’Agenzia potesse prelevare dei campioni ambientali. Insomma per la trattativa che si apre domani di carne al fuoco ce n’è molta e sarà interessante vedere quali carte verranno scoperte. Da una parte e dall’altra.

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